Danni iure successionis In conseguenza della condotta illecita altrui, sorgono in capo alla vittima coinvolta in un sinistro una serie di danni che maturano direttamente nella sua sfera giuridica: in caso di morte della vittima, il diritto a chiedere il risarcimento di tali danni viene trasmesso iure successionis agli eredi secondo lo schema di cui all’art. 565 c.c. Naturalmente perchè si possa parlare di trasmissibilità agli eredi della pretesa risarcitoria è necessario, secondo la dottrina e giurisprudenza maggioritarie, che sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo tra l’evento causativo del danno e la morte della vittima, in quanto si è affermato che “occorre un lasso di tempo sufficiente perché si concretizzi quella perdita di utilità, fonte dell’obbligazione risarcitoria” (Cass. Civ. 28/11/1998 n. 12083).

E’ possibile definire l’abuso sessuale in modi molto diversi. Una definizione generale soddisfacente può essere quella che fornisce Montecchi (1994): «il coinvolgimento di soggetti immaturi e dipendenti in attività sessuali, soggetti a cui manca la consapevolezza delle proprie azioni nonché la possibilità di scegliere.

Rientrano nell’abuso anche le attività sessuali realizzate in violazione dei tabù sociali sui ruoli familiari pur con l’accettazione del minore». 

  • Da questa definizione si deduce che l’abuso sessuale non è certamente un’attività che comporti necessariamente l’atto della penetrazione. L’aspetto fondamentale, invece, è quello rappresentato dalla condizione della vittima, impossibilitata a scegliere o a comprendere correttamente quello che sta accadendo o che viene proposto. Nel caso di un abuso sessuale, quindi, si è in presenza di un abuso sessuale quando la persona coinvolta nella relazione sessualizzata non è in grado di cogliere il profondo significato di quanto viene effettuato su di lei, oppure le conseguenze reali e durature a cui può portare. Si parla di abuso sessuale anche nei casi in cui la persona non viene mai fisicamente toccata, ma viene esposta alla visione o all’ascolto di vicende a contenuto sessuale non adeguate all’età o alla relazione con l’abusante.

     

    Nei casi più evidenti e cruenti la persona che subisce un abuso sessuale è posta nell’impossibilità di agire liberamente mentre viene posta all’interno di una relazione sessualizzata, per esempio attraverso minacce o l’impiego della forza fisica.

    A causa dell’origine della molestia, l’abuso sessuale intrafamiliare produce, in linea di massima, effetti più gravi di quelli prodotti da abusi avvenuti all’esterno del nucleo familiare. La maggior parte degli abusi sessuali intrafamiliari viene effettuata dai padri, in secondo luogo dai conviventi nel nucleo familiare (nonni, zii, patrigni, ecc,) e, in percentuale molto minore, dalle madri (circa il 7% dei casi).

     

    La ricerca clinica indica che un abuso sessuale intrafamiliare può produrre i danni più gravi soprattutto quando sono presenti le seguenti caratteristiche

     

    un legame intenso con la persona che effettua l’abuso;

    una lunga durata dell’abuso;

    l’abuso resta nascosto o non viene riconosciuto dall’ambiente familiare;

    la persona abusata non è in grado di parlare dell’accaduto

    la persona abusata è ancora un bambino.

    L’abuso sessuale, specialmente se intrafamiliare, può certamente dare origine a molti problemi psicologici, anche di lunga durata e di difficile risoluzione spontanea nel corso della vita.

     

    Quali problemi può comportare un abuso sessuale

     

    L’abuso sessuale può produrre molti tipi di problemi psicologici e per questo motivo si dice che si tratta di un “fattore di rischio non specifico” nei confronti di differenti disturbi psicologici. Sul perchè una persona reagisca in un modo oppure in un altro è una questione molto vasta e complessa, sulla quale c’è ancora molto da comprendere. In ogni caso, sembra accertato che la risposta soggettiva agli eventi sia condizionata da alcuni importanti fattori come: l’età al momento dell’abuso, la durata, la presenza o meno di penetrazione, l’uso esplicito di violenza, caratteristiche di personalità della persona, la presenza al momento dell’abuso di determinati problematiche psicologiche, la possibilità di condividere l’accaduto con qualcuno, il sostegno emotivo ricevuto in seguito, ulteriori esperienze che possono peggiorare la situazione o, al contrario, aiutare a superare gradualmente l’accaduto.

    L’abuso sessuale deve essere considerato innanzitutto come una esperienza traumatica. Di conseguenza può generare sintomi come un vero e proprio Disturbo Post-Traumatico da Stress. In questo modo, le esperienze subite, sotto forma di immagini, emozioni, sensazioni fisiche, parole, suoni, odori, sapori, incubi notturni, possono ritornare frequentemente alla mente della persona abusata, insieme ad emozioni fortemente disturbanti come depressione, ansia, angoscia, irritabilità, panico o rabbia. Nei bambini i ricordi tendono a ripresentarsi sotto forma di incubi popolati da mostri e nel ripetere – attraverso il gioco o il disegno – qualche elemento saliente dei fatti accaduti.

     

    Tipicamente la persona che ha subito un abuso sessuale cerca di mantenere a distanza i ricordi traumatici. In alcuni casi, addirittura, è possibile che, almeno in determinati periodi della vita, la persona abusata abbia amnesie più o meno parziali per gli eventi accaduti o ricordi estremamente confusi. In una quantità rilevante di casi i ricordi dell’abuso progressivamente perdono in parte l’aspetto drammatico che li contraddistingue, divenendo più facilmente gestibili da parte dell’individuo. Se questo è certamente un vantaggio, d’altra parte può anche comportare un pericolo potenziale, in quanto la persona si può abituare a convivere con i problemi generati dall’abuso, a non condividerli con nessuno e, in generale, a non affrontarli adeguatamente. In alcuni casi, questo stato di cose può prendere la configurazione di Disturbo Post-Traumatico da Stress in remissione parziale.

Quando il minore è temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato a un’altra famiglia, preferibilmente con altri figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare, al fine di assicurargli il mantenimento, l’educazione e l’istruzione. Scopo dell’Istituto è quello di salvaguardare l’interesse del minore in caso di temporanee difficoltà familiari. 

  • L’affidamento può essere disposto anche su iniziativa degli operatori del consultorio del luogo in cui si trova il minore in difficoltà, previo consenso da parte di chi esercita la potestà. L’affidamento viene reso esecutivo con decreto del Giudice Tutelare. Se il consenso viene negato o nei casi di particolare urgenza, l’affidamento viene disposto dal Tribunale per i minorenni. L’affidamento è temporaneo e dura fino a quando vengono meno le difficoltà della famiglia di origine o tra il minore e l’affidatario sorgono problemi di convivenza non risolvibili. Tutti coloro (famiglie o singole persone) che intendono aiutare i bambini che vivono dei momenti di difficoltà e intendono proporsi come affidatari possono rivolgersi agli operatori.

    La famiglia è un diritto per ciascun bambino del mondo ed è il luogo privilegiato dove il bambino costruisce la propria identità. L’affido è uno dei possibili aiuti che viene offerto ad un bambino che versa in difficoltà causate dalla malattia di un genitore, problemi generati da dipendenza, alcoolismo, isolamento sociale, trascuratezza, fenomeni di violenza fisica e psichica, relazioni disfunzionali. Tutti casi, questi, che temporaneamente possono ostacolare la funzione educativa o la convivenza genitore/figlio. Spesso i minori vengono affidati ad un istituto dove vengono soddisfatte esigenze primarie fra cui vitto, alloggio, sostegno nelle attività scolastiche. Tuttavia trattandosi di una struttura organizzativa, diversa da quella familiare, il minore si trova a vivere in una realtà in cui si alternano le figure professionali, che diventano anche di riferimento, vi sono orari e regole rigide da rispettare, gli spazi da condividere con estranei, ecc.

    La Legge 184 prevede che il minore, da 0 a 18 anni, privo di un ambiente familiare idoneo, può essere affidato ad un’altra famiglia al fine di:

    assicurargli mantenimento, educazione, istruzione ed una crescita armonica ed equilibrata;

    non recidere i legami con la famiglia d’origine;

    consentire ai genitori naturali di essere nuovamente in grado ad accogliere il figlio.

    L’affido eterofamiliare può essere disposto in forma consensuale o non consensuale.

    L’affidamento è detto consensuale quando i genitori sono d’accordo che il loro figlio venga affidato temporaneamente ad altra famiglia. In tal caso l’affido viene disposto dal Servizio Sociale e ratificato dal Giudice Tutelare del luogo di residenza del minore.

    Nel caso in cui l’affidamento non è consensuale, o giudiziario, i genitori non acconsentono all’affidamento sebbene il loro bambino versi in una condizione di grave disagio all’interno della famiglia. I genitori si sentono i “proprietari” della vita dei loro figli che diventano quasi degli oggetti e la violenza, talvolta agita, altre subita da uno dei due coniugi, deve restare segregata all’interno del nucleo familiare. L’affido viene disposto dal Tribunale dei Minori.

    La caratteristica fondamentale dell’affido, ormai è chiaro, è la temporaneità, giacchè tale provvedimento avrebbe la durata di alcuni mesi o al massimo qualche anno. Il periodo di presumibile durata deve essere indicato nel provvedimento predisposto dal Servizio Sociale e convalidato dal Giudice Tutelare ed è riferito ai bisogni del minore ed ai tempi di recupero della sua famiglia. Con l’affidamento si sollevano le famiglie d’origine, temporaneamente, dalle funzioni genitoriali, per consentire loro di “ristrutturarsi”, di riacquistare la capacità di gestire il proprio ruolo, di riorganizzare le proprie risorse e di rimuovere gli ostacoli che rendono difficile una piena funzione educativa.

    Possono essere affidatari:

    famiglie con figli;

    coppie;

    persone singole.

    Non esistono limiti di età. Sono individuati fra coloro che si sono dichiarati disponibili a prendersi carico di uno o più minori in affido, essendo consapevoli che non si apriranno mai prospettive di adozione. Persone senza gravi problemi dotate di benessere psichico. Viene loro richiesta la disponibilità all’accoglienza del minore e di proporsi quale modello educativo, di rendersi disponibili a mantenere rapporti con i Servizi Socio-Sanitari e con la famiglia d’origine. L’affidatario ha il compito di prendere decisioni in campo sanitario, educativo e scolastico. Dovrà provvedere alla cura, al mantenimento, all’istruzione del minore.

    Le tipologie di affido sono:

    a tempo pieno in cui il minore si trasferisce a vivere presso la famiglia affidataria per un periodo variabile da alcuni mesi o anni, oppure solo nei week-end e vacanze, o solo in situazioni di emergenza;

    a tempo parziale il minore trascorre con gli affidatari una parte della giornata (ad es. il pomeriggio dopo la scuola);

    centri socio-educativi (sono strutture con finalità socio-terapeutiche che si occupano dei minori nelle ore post-scolastiche per supplire a quegli ambienti familiari inadeguati);

    comunità alloggio.

    La maggior parte dei bambini che vengono dati in affidamento sono in età scolare, circa sette, otto anni, non molto piccoli. Provengono da famiglie spesso appartenenti al sottoproletariato urbano, deprivate sul piano economico, violente, abusanti, maltrattanti.

    L’affido è stato “ideato” quale alternativa da preferire all’istituzionalizzazione considerata depersonalizzante e minorante. Un provvedimento che porta il minore ad essere considerato “uno dei tanti ospitati”, in cui non può sperimentare rapporti con le figure parentali, pertanto, tale vissuto, potrebbe risultare dannoso per lo sviluppo dell’dentità del bambino. La famiglia affidataria viene considerata, invece, un luogo familiare, un nucleo di sostegno affettuoso e disponibile ove il bambino possa costruire un’esperienza psicologica positiva per rientrare successivamente nel nucleo familiare originario.

    Nell’affido eterofamiliare entrano in gioco due famiglie in relazione alle quali il bambino dovrebbe, ipoteticamente, sentirsi in egual modo in armonia.

    La Legge 184 afferma “l’affidatario deve agevolare i rapporti fra il minore e i suoi genitori e favorirne il reinserimento nella famiglia d’origine” chiarendo così la differenza fra affido e adozione. Non si tratta quindi di una premessa per una futura adozione, è solo un provvedimento, limitato nel tempo, per consentire al minore di sperimentare ciò che la famiglia d’origine non è in grado di dargli, un legame che dovrebbe assicurargli tutto ciò di cui un bambino ha bisogno creando relazioni con degli adulti che lo crescano, lo accudiscano e gli diano sicurezza. Forse è proprio questo il paradosso, si offre ad un bambino “disagiato” uno spiraglio in cui gli si fa sperimentare come sarebbe dovuta essere la sua vita qualora avesse avuto dei genitori adeguati, quindi diversi da come invece li ha. E’ come se la Legge desse l’occasione al bambino di capire da sé come dovrebbe crescere, quale sarebbe la linea da seguire per crescere bene, farne tesoro e, tornando nella famiglia d’origine, discernere gli insegnamenti consoni e quelli errati dei genitori, laddove questi ancora una volta dovessero mostrarsi inadeguati.

L’amministratore di sostegno è una figura istituita per quelle persone che, per effetto di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di dover provvedere ai propri interessi.

  • Anziani o disabili, ma anche alcolisti, tossicodipendenti, carcerati, malati terminali, ciechi, potranno ottenere, anche in previsione della propria eventuale futura incapacità, che il giudice tutelare nomini una persona, che abbia cura della loro persona e del loro patrimonio.

     

    La persona interessata può mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata presentare la richiesta al giudice tutelare della propria zona di residenza o anche domicilio e entro sessanta giorni dalla data di presentazione della richiesta, il giudice provvederà alla nomina dell’amministratore. Il suo decreto diventa immediatamente esecutivo.

Nel nostro ordinamento la persona che ha compiuto diciotto anni è considerata capace di agire ovvero capace di compiere atti giuridici validi (vendere, comprare, fare procure, firmare cambiali ecc).

Fino a diciotto anni la di capacità di agire è tutelata dai genitori i quali sono i rappresentanti legali del minore. 

  • I genitori infatti compiono per il figlio minorenne, tutti gli atti di ordinaria amministrazione necessari e, se si tratta di atti di straordinaria amministrazione (es. vendere e comprare immobili, accettare eredità ecc…), devono anche chiedere l’autorizzazione al Giudice Tutelare (art. 320 del Codice Civile).

     

    Intendere e volere

    Il secondo tipo di difficoltà può essere riscontrato nell’ambito di atti di ordinaria e straordinaria amministrazione che vengono compiuti dal soggetto incapace. Per il nostro ordinamento colui che non è stato interdetto, in quanto maggiorenne, compie atti astrattamente validi, salvo dimostrare poi, nel corso di un giudizio che l’atto è stato pregiudizievole e/o il terzo era in mala fede e che l’autore degli stessi era incapace naturale (art. 428 c.c.).

    Se ad esempio, il soggetto incapace naturalmente compra un libro o una bicicletta ad un prezzo sproporzionato, o peggio firma un assegno o una cambiale, non capendo il valore di ciò che firma, i contratti e i negozi unilaterali firmati saranno strettamente validi, salvo poi impugnarli, promovendo un processo per annullarli, nel quale dovrà essere data prova di quanto sopra e dimostrata l’incapacità naturale dell’autore.

    Se un soggetto maggiorenne è totalmente incapace di intendere e di volere, il nostro ordinamento prevede che debba essere interdetto (anche nell’ultimo anno prima del compimento della maggiore età).

    Se un soggetto maggiorenne è parzialmente incapace di intendere e di volere il nostro ordinamento prevede che possa essere inabilitato (artt. 415 c.c. e 416 c.c).

     

    L’interdizione

    Interdire significa che l’incapace maggiorenne (ed anche nell’ultimo anno della sua minore età), previa dichiarazione del Tribunale della sua incapacità ossia previa dichiarazione di interdizione, ritorna allo stato giuridico del minorenne. Il Tribunale accerta la sua incapacità e nomina un rappresentante legale ossia un tutore.

    Per tale motivo in alcuni Paesi della Comunità Europea la procedura viene definita come “prolungamento dell’esercizio della potestà genitoriale”, perché di fatto, il tutore diviene il rappresentante legale dell’interdetto esattamente come se quest’ultimo fosse minorenne.

    Il vantaggio immediato è che il tutore rappresenta legalmente l’interdetto per cui nei casi di cui sopra, se l’interdetto deve vendere un bene immobile (esattamente come capita al genitore per il figlio minorenne), il tutore, previa autorizzazione del Giudice, potrà manifestare validamente il consenso davanti al notaio in nome e per conto dell’interdetto ed ugualmente potrà validamente manifestare il consenso per un intervento medico ed ancora, nel caso in cui si debba annullare un negozio giuridico compiuto da un incapace, la prova della sua incapacità sarà semplicissima essendoci una sentenza di interdizione.

     

    L’inabilitazione

    Il legislatore prevede che chi è parzialmente incapace possa essere inabilitato.

    L’inabilitato, previa dichiarazione del Tribunale della sua parziale incapacità, diversamente dall’interdetto, può compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione da solo, mentre deve essere affiancato dal curatore per gli atti di straordinaria amministrazione e necessita sempre per questi ultimi, della autorizzazione del giudice tutelare.

    Il curatore non è rappresentante legale ma deve firmare gli atti di straordinaria amministrazione insieme all’inabilitato valutando l’opportunità degli stessi preventivamente con il giudice.

    L’atto senza la firma del curatore è annullabile.

    Valgono anche per l’inabilitato le stesse considerazioni fatte per l’interdetto, ossia il curatore non si occupa solo dell’aspetto patrimoniale. Egli deve certamente amministrare il patrimonio insieme all’inabilitato in modo oculato, ma lo accompagnerà nelle scelte più importanti della sua vita e firmerà insieme a lui tutti gli atti di straordinaria amministrazione, il che costituisce una enorme protezione per l’incapace.

    Anche in questo caso, soprattutto quando curatore è un terzo, il controllo del Tribunale sul suo operato e sulla sua condotta è una garanzia.

Il danno psichico ed il danno da pregiudizio esistenziale devono essere risarciti, quali danni non patrimoniali, ex art. 2059 c.c.
Pur essendo pacifico il risarcimento di tale danno (da ultimo, si veda Cassazione civile 13547/20091), non è chiaro come si possa procedere alla sua quantificazione, in modo tale da assicurare l’integralità del risarcimento (Cass. civ. SS.UU. 26972/2008), il rispetto della vittima e la solidarietà verso la stessa, ex art. 2 Cost.). 

  • Ad oggi, nonostante la continua evoluzione giuridica e sociale del sistema risarcitorio italiano, persiste in una concezione esclusivamente medico legale del danno alla persona, mentre ai fini di un completo ed esauriente accertamento del danno non patrimoniale è necessaria anche una indagine diagnostica valutativa a carattere specialistico psicologico forense e soltanto in caso di accertata patologia psichica anche psichiatrico forense.

    Infatti il medico legale e lo psichiatra forense sono competenti per l’accertamento a carattere clinico medico e non psicologico del danno alla persona, in particolare in presenza di evidenti patologie psichiche; lo psicologo forense è, invece, lo specialista più idoneo per la valutazione del danno psichico e da pregiudizio esistenziale, avendo fra le sue competenze la possibilità di effettuare diagnosi con strumenti di indagine, quali il colloquio clinico e i test appropriati, ai fini dell’accertamento e la valutazione del danno (come consentito e disposto dall’art.1 della legge n° 56/89).

    In considerazione di ciò, si auspica il conferimento di incarichi ad esperti in psicologia giuridica, sia nelle consulenze tecniche disposte dal tribunale, sia nel settore assicurativo.

    Le attuali tabelle medico legali (per le invalidità permanenti superiori al 15%) non possono ritenersi utili a tal fine, perché concepite per il danno di tipo fisico e non psichico, che presenta aspetti e dinamiche del tutto diverse; neanche sono utili quelle ministeriali per i danni c.d. micro permanenti in ambito rc auto, perché inidonee a cogliere i profili lesivi della psiche e delle conseguenze sugli aspetti dinamico relazionali comuni e non comuni a tutti (in questo senso, Cassazione civile 11048/2009).

    Lo stesso Legislatore, d’altronde, con il D.p.r. 37/2009, nel richiedere anche il risarcimento da sofferenza e da turbamento dello stato d’animo, oltre a quello biologico, indica proprio agli interpreti di non tralasciare i profili psichici, ricadenti pure sulla vita quotidiana.

    Il danno psichico, coerentemente con la lettera dell’art. 1223 c.c., richiede il risarcimento come:

    ‐ lesione dell’integrità psichica;

    ‐ conseguenti mancate utilità non patrimoniali.

    La tabella del danno psichico e da pregiudizio esistenziale costituisce un utile ed indispensabile strumento scientifico a carattere pluridisciplinare per la valutazione del danno alla persona; l’uso deve riguardare consulenze tecniche interdisciplinari e in particolare quelle a carattere specialistico psicologico forense per il loro riconosciuto valore di scienza e nelle situazioni in cui tale danno è dedotto, anche a prescindere dalla

    lesione del soma.

    Le tabelle intendono raggiungere l’obiettivo di costituire uno strumento a carattere generale per una uniformità di trattamento valutativo delle vittime in base all’esame psicologico e psicodiagnostico, fermo restando il valore indicativo e orientativo della tabella medesima, essendo il danno psichico e da pregiudizio esistenziale anche nella sua componente percentualizzabile, contrassegnato da una variabilità individuale, soggettiva e personale; in questo modo si rispetterà il disposto dell’articolo 3 della Costituzione sia inteso come legge uguale per tutti e sia come divieto di trattare in modo diseguale situazioni giuridiche eguali.

    Il DANNO PSICHICO si differenzia dal danno fisico poiché non ha una manifestazione esteriore tangibile. Infatti, mentre la lesione fisica lascia un segno evidente, il trauma psichico è caratterizzato da manifestazioni che riguardano appunto la psiche e che spesso non hanno ripercussioni visibili sul corpo del soggetto. Il danno psichico può essere definito come una infermità mentale, una condizione patologica di sovvertimento della struttura psichica nei rapporti tra rappresentazione ed esperienza, ricordi e vita vissuta, emozioni e concetti che le esprimono. La menomazione psichica consiste, quindi, nella riduzione di una o più funzioni della psiche. In modo estremamente schematico si può dire che il danno psichico si manifesta in una alterazione della integrità psichica, ovvero una modificazione qualitativa e quantitativa delle componenti primarie psichiche, come le funzioni mentali primarie, l’affettività, i meccanismi difensivi, il tono dell’umore, le pulsioni.

    Il danno esistenziale (che ancora subisce oscillazioni in ambito dottrinario e giurisprudenziale) nasce dalla lesione dei diritti costituzionalmente garantiti e si presenta come un’alterazione, in senso peggiorativo, del modo di essere di una persona nei suoi aspetti sia individuali che sociali; sul piano individuale si presenta come una modificazione della personalità e dell’assetto psicologico nel suo adattamento, nei suoi stati emotivi, nella sua efficienza e nella sua autonomia, mentre sul piano sociale si presenta come un’alterazione del manifestarsi del proprio modo di essere nelle relazioni

    familiari affettive e nelle attività realizzatrici (riposo, interpersonali/relazionali, di svago, sociali/culturali e di autorealizzazione). Si tratta, quindi, di una modificazione peggiorativa dell’equilibrio psicologico e dello stile di vita nellʹambito dei rapporti sociali, della famiglia e degli affetti in ottica relazionale ed emotiva; ciò condiziona marcatamente la qualità della vita, la sua progettualità e le aspettative.

     

    Il danno esistenziale

     

    Il danno esistenziale consiste nella lesione della personalità del soggetto nel suo modo d’essere sia personale che sociale, che si sostanzia nell’apprezzabile alterazione della qualità della vita, consistente in un agire altrimenti o in un non poter fare come prima.

    E’ stato definito dalla corte di Cassazione nell’ordinanza n. 4712 del 25 Febbraio 2008 con la quale rimetteva la questione al vaglio delle sezioni unite come “il danno derivante dalla lesione di valori/ interessi costituzionalmente garantiti e consistente nella lesione al fare a-reddituale del soggetto”.

    Rappresenta una figura risarcitoria in grado di fornire ristoro in tutti quei casi in cui, a seguito dell’illecito, risulti pregiudicata la sfera personale della vittima, con condotte diverse dal passato, un diverso dover fare, un altro modo di rapportarsi al mondo esterno.

    Il bene giuridico che si intende tutelare è costituito dalle attività realizzatrici della persona. Ogni individuo svolge delle attività che gli consentono di realizzarsi, e che, inserite nella vita quotidiana, costituiscono un momento importante per il proprio equilibrio e, più in generale dello sviluppo della propria persona.

    Il significato e il valore che una specifica attività assume per la realizzazione della propria persona varia da soggetto a soggetto.

    A sconvolgere l’esistenza della vittima può essere la perdita di un’attività di svago, di volontariato, un legame affettivo,una partecipazione sociale, un impegno sportivo, il gusto di collezionare (Cendon, 2000).

    Vanno prese in considerazione le attività che la vittima svolgeva e non potrà più compiere, oppure potrà dedicarsi in maniera limitata; inoltre va tenuto conto di quelle operazioni gravose sul piano personale che il danneggiato deve affrontare suo malgrado, finendo per limitarlo sul piano dell’espressione della propria personalità, sia perché spiacevoli in sé, sia perché riduttive dei margini di tempo a propria disposizione (Ziviz, 2003).

    Il danno esistenziale deve apparire nella sua concretezza, come un insieme di fatti, di mutamenti realmente avvenuti nell’agenda quotidiana, e come tali documentabili, percepibili da chiunque in diversi modi.

    Al pari di qualunque altro fatto accaduto, dovrà essere portato a conoscenza del giudice.

    A tal fine sarà estremamente opportuno, pertanto allegare quale sia stata l’effettiva organizzazione della vita della vittima prima e dopo l’illecita

     

    Valutazione del danno esistenziale: accertamento diagnostico in ambito peritale.

     

    L’accertamento diagnostico si basa, secondo i procedimenti della clinica psicologica, psichiatrica e psicodiagnostica.

    Il perito nell’approccio alla diagnosi di un disturbo, deve tener conto del quesito, che può essere posto dal magistrato o direttamente dal cliente.

    Il consulente tecnico deve fare una diagnosi sul periziando, esponendo gli aspetti salienti della valutazione in tema di danno.

    Si ritengono fondamentali cinque momenti: l’anamnesi, il colloquio, l’esame psicodiagnostico, l’applicazione di un criterio di calcolo e la stesura della relazione.

    Per valutare la presenza e la consistenza del trauma, occorre effettuare un analisi approfondita del soggetto, con aspetti metodologici che dovranno riguardare colloqui clinici e l’utilizzo dei test.

    Anamnesi. L’anamnesi deve comprendere l’anamnesi familiare remota e attuale, l’anamnesi fisiologica, l’anamnesi psicopatologica, l’anamnesi scolastica e l’anamnesi lavorativa.

    Colloquio. I colloqui clinici devono essere strutturati con colloquio libero e con colloquio tematico dove si approfondisce il tema. Si devono evitare domande chiuse e suggestive.

    Dal colloqui clinico possiamo mettere in relazione gli avvenimenti avvenuti prima dell’evento lesivo e il dopo, quello che non si riesce più a fare e quello che si fa in modo limitato.

    L’esame psicodiagnostico serve a dare un profilo del soggetto in modo oggettivo; certamente i test non sono strumenti diagnostici autonomi, richiedono di essere confrontati e verificati con l’anamnesi, i colloqui e tra loro stessi.

    Il loro utilizzo è fondamentale per smascherare comportamenti simulatori.

    Una batteria testale di valutazione del danno esistenziale comprenderà i principali reattivi ad ampio spettro come: MMPI-2, TAT, WAIS-R, Rorschach, STAI, POMS, fino all’utilizzo di test più specifici che vanno a valutare la qualità di vita dei soggetti.

Diverso è il concetto di danno tanatologico iure successionis, che viene definito come il danno derivante dalla morte in sè, nell’ipotesi in cui non intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra la lesione e la morte: è il caso in cui la vittima dell’incidente muoia immediatamente sul colpo o a brevissima distanza di tempo (es: dopo qualche ora).

 

  • Leggi di più

     

    La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie tendono a escludere la risarcibilità di tale tipo di danno: la Suprema Corte ha precisato infatti che “la lesione dell’integrità fisica con esito letale, intervenuta immediatamente o a breve distanza di tempo dall’evento lesivo, non è configurabile quale danno biologico, dal momento che la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita, per il definitivo venir meno del soggetto non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima, di un corrispondente diritto al risarcimento trasmissibile agli eredi…” (Cass. Civ. 23/02/2004 n. 3549)
Di recente proprio in materia di danno tanatologico si è pronunciata nuovamente la Corte di Cassazione, la quale ha riconosciuto che nel caso di danno da morte immediata o tanatologico il giudice potrà liquidare solo il danno morale alla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine (Cass. civ. s.u. 11/11/2008 n. 26972); (c.f.r. anche Luigi Viola “danni da morte e da lesione alla persona”).


    Danno Parentale


    A seguito della morte di una persona verificatasi in conseguenza di un incidente causato dalla condotta illecita altrui, coloro che al momento del decesso si trovavano in una relazione affettiva con la vittima hanno diritto, ove ne provino l’esistenza, al risarcimento del danno alla propria integrità psico-fisica, patita a causa dell’evento luttuoso che li ha colpiti. Tale tipologia di danno viene comunemente detto “danno da perdita parentale” o “danno parentale”. Fattori che determinano l’entità del risarcimento I criteri orientativi del Tribunale di Roma tengono in considerazione alcuni fattori che contribuiscono alla quantificazione economica del risarcimento.


    Il rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento, dovendosi presumere che, secondo l’id quod plaerunque accidit, il danno è tanto maggiore quanto più stretto è tale rapporto; a tal proposito è bene precisare che il convivente che rivendica il diritto al risarcimento deve dare prova di avere avuto una relazione stabile e prolungata nel tempo con il defunto.

    L’età del congiunto: il danno è tanto maggiore quanto minore è l’età del congiunto superstite; tale danno infatti è destinato a protrarsi per un tempo maggiore, soprattutto quando si tratta di minori di età, la cui perdita di un familiare può pregiudicare il loro sviluppo psifofisico.

    L’età della vittima: anche in questo caso è ragionevole ritenere che il danno sia inversamente proporzionale all’età della vittima, in considerazione del progressivo avvicinarsi al naturale termine del ciclo della vita.

    La convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite. Infine, un altro fattore che influisce sull’entità del risarcimento è la presenza all’interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi; infatti il danno derivante dalla perdita è sicuramente maggiore se il congiunto superstite rimane solo, privo di quell’assistenza morale e materiale che gli derivano dal convivere con un’altra persona o dalla presenza di altri familiari.

I disturbi psicosessuali comprendono le disfunzioni sessuali (la più comune forma di disturbo psicosessuale osservato nella pratica medica), i disturbi dell’identità di genere e le parafilie.
Le norme approvate di comportamento e di atteggiamento sessuale variano grandemente a seconda del contesto sociale e culturale.

  • La masturbazione, un tempo considerata diffusamente come una perversione e come causa di disturbi mentali, oggi viene riconosciuta come un’attività sessuale normale durante tutta la vita; è da considerare un sintomo solo quando inibisce il comportamento sessuale con un partner, se è eseguita in pubblico o se è così compulsiva al punto da causare sofferenza. La sua incidenza è all’incirca del 97% nel sesso maschile e dell’80% in quello femminile. Sebbene la masturbazione non sia dannosa, il senso di colpa creato dalla disapprovazione e dagli atteggiamenti punitivi degli altri può arrecare notevole sofferenza e compromettere l’attività sessuale.

     

    Circa il 4-5% della popolazione è omosessuale per tutta la vita. Dal 1973, l’Associazione Psichiatrica Americana (APA) non ha più considerato l’omosessualità come un disturbo. Come l’eterosessualità, l’omosessualità deriva da fattori biologici e ambientali complessi, che conducono a una preferenza pressoché inevitabile nella scelta del partner sessuale. Per molti non è una questione di scelta. Nondimeno molte persone, medici compresi, comsiderano l’omosessualità immorale e peccaminosa, e un’intensa avversione per l’omosessualità da parte di un medico (omofobia) può interferire con la cura adeguata degli omosessuali.

     

    Un’attività sessuale frequente con molti partner, spesso occasionali, é indice di una diminuita capacità di sostenere il rapporto di coppia. La paura dell’AIDS ha provocato una diminuzione degli incontri sessuali casuali. La maggior parte delle culture scoraggia la sessualità extraconiugale, ma accetta i rapporti prematrimoniali come normali. Negli USA la maggior parte degli individui ha rapporti prematrimoniali, in linea con la tendenza verso una maggiore libertà sessuale nei paesi sviluppati.

     

    I medici ben aggiornati possono offrire una consulenza sensibile e seria in materia sessuale e non devono perdere l’opportunità di un intervento utile, ricordando che le pratiche sessuali sono diverse tra le culture e che la forza dell’istinto sessuale, i bisogni individuali e la frequenza dei rapporti sono molto variabili.

     

    Eziologia

     

    L’eziologia dei disturbi psicosessuali è complessa e molto variabile. Probabilmente hanno un certo peso i fattori ereditari e costituzionali. Gli androgeni fetali aiutano a preparare il cervello all’attività sessuale successiva; un’interferenza con questo processo può non essere nociva per sé, ma può rendere una persona vulnerabile a influenze ambientali dannose durante lo sviluppo psicosessuale dell’infanzia.

     

    Gli atteggiamenti dei genitori nei confronti del comportamento sessuale sono un fattore importante (v. anche, Disturbi dell’Identità di Genere, oltre). Un rifiuto pregiudiziale e puritano della sessualità fisica, compreso il contatto fisico, da parte di un genitore, crea sensi di colpa e di vergogna nel bambino e inibisce la sua capacità di godere della propria sessualità e di sviluppare delle relazioni adulte sane. Il rapporto con i genitori può essere danneggiato da un eccessivo distacco emotivo e da atteggiamenti punitivi o eccessivamente seduttivi e utilitaristici. I bambini soggetti a ostilità, rifiuto e maltrattamenti sono predisposti all’insorgenza di disturbi della sessualità. I bambini hanno bisogno di sentirsi accettati e amati. (Uno degli obiettivi della terapia è quello di rendere una persona sicura della propria capacità di amare e di essere amata per ciò che è).

     

    I problemi nelle relazioni genitore-figlio possono contribuire all’insorgenza di disfunzioni sessuali, di disturbi dell’identità di genere (p. es., il transessualismo, il travestitismo) o di parafilie (v. oltre). L’amore e il desiderio possono subire una dissociazione, così che possono essere formati dei legami affettivi con persone della propria classe sociale o della propria levatura culturale, ma sono possibili rapporti sessuali fisici soltanto con persone considerate inferiori, come le prostitute, con le quali l’individuo non sente né affinità, né legami emozionali. Il rapporto sessuale con il coniuge si associa a sensi di colpa e di ansia, e la soddisfazione sessuale viene ottenuta solo in rapporti o pratiche in cui non vengono risvegliati sentimenti di tenerezza e affetto.

     

    Le modalità di eccitazione sessuale sono largamente ben sviluppate prima della pubertà; perciò, se si sviluppa un disturbo dell’identità di genere o una parafilia, le cause vanno ricercate negli anni prepuberali. Sono implicati tre meccanismi: l’ansia interferisce con il normale sviluppo psicosessuale; lo schema standard di eccitazione è sostituito da un altro, che consente al soggetto di provare piacere sessuale; la modalità di eccitazione sessuale spesso acquisisce sfaccettature simboliche e condizionanti (p. es., un feticcio simbolizza l’oggetto dell’eccitazione sessuale, ma può essere stato scelto perché associato in maniera casuale alla curiosità, al desiderio e all’eccitazione sessuale). È ancora controverso se tutti gli sviluppi di tipo transessuale o parafilico siano la conseguenza di tali processi psicodinamici.

Il termine mobbing, deriva dal verbo inglese to mob, che significa: accerchiare, attaccare, aggredire in massa.

Questo termine è ormai entrato a far parte del vocabolario del mondo del lavoro, rappresentando un fenomeno ampio e dagli effetti pericolosissimi sia per il lavoratore che ne è colpito, sia per il benessere dell’intera società.

  • Si tratta infatti di vari comportamenti aggressivi o subdoli messi in atto sul posto di lavoro ai danni di un lavoratore. Lo scopo perseguito col mobbing è quello di eliminare una persona “scomoda”, sia perché più capace e geniale e dunque in grado di sovvertire la gerarchia aziendale o di eliminare i privilegi conquistati dagli altri lavoratori prima della sua venuta, sia più semplicemente perché esprimente opinioni ed abitudini diverse dal gruppo. Tutto ciò viene perseguito distruggendo la persona psicologicamente e socialmente in modo da provocarne il licenziamento o da indurla alle dimissioni senza che si crei un caso sindacale. Gli effetti del mobbing Il mobbing innanzitutto ha conseguenze di portata enorme sulla persona direttamente soggetta agli abusi. Gli effetti provocati si sviluppano secondo una gamma varia e sempre più grave man mano che le aggressioni proseguono nel tempo.
Sono così state individuate quattro fasi attraverso cui si sviluppano i danni: Prima fase All’inizio del conflitto e degli attacchi la vittima inizia a manifestare un certo malessere. Nei primi sei mesi appaiono i primi sintomi psicosomatici: incubi, insonnia, inappetenza, nausea, solitudine con ripiegamento su di sé. Seconda fase Si ha il passaggio dal mobbing al terrore psicologico. Dai 15 ai 18 mesi si crea uno stato cronico di ansietà. Dai 2 ai 4 anni dall’inizio del conflitto appaiono disturbi della personalità: depressione, fobie, pensieri ossessivi, che generano dipendenza da tranquillanti, che a loro volta provocano abulia ed assenza dal lavoro per malattia. Terza fase È questa la fase in cui del caso inizia ad occuparsi l’ufficio del personale, il quale si inserisce attivamente nella strategia di abusi sulla vittima, ritenendola responsabile di tale situazione. Così, in questa atmosfera di prepotenze tollerate o sostenute dalla stessa azienda, il lavoratore si trova sempre più isolato: gli viene negato qualsiasi colloquio col personale delle risorse umane, viene calunniato, criticato fino alla distruzione di ogni fiducia in se stesso e delle sue referenze per impedirgli di trovare nuovi impieghi. Quarta fase Consolidate le manie ossessive la vittima può sviluppare malattie di vario genere sia nervose sia fisiche di lunga durata. A livello psicologico può esplodere aggressività o contro di sé, fino al suicidio, sia verso la famiglia, compromettendo le basilari relazioni interpersonali. Dal lato economico la vittima, lavorando meno e male, assentandosi continuamente per malattie, subisce perdite. Il lavoratore viene poi, come estreme conseguenze, licenziato, messo in mobilità o in prepensionamento. Le ricerche condotte all’estero hanno dimostrato che il mobbing può portare fino all’invalidità psicologica, e che quindi si può parlare anche di malattie professionali o di infortuni sul lavoro. In Svezia un’indagine statistica ha dimostrato che tra il 10 e il 205 del totale dei suicidi in un anno hanno avuto come causa scatenante fenomeni di mobbing. I danni per l’azienda Il mobbing dannegga anche chi l’azienda: viene colpita nell’efficienza e nella produttività. Aumenta l’assenteismo, la conflittualità, gli infortuni e le malattie, lo scarso interesse, il contenzioso: tutto ciò crea un clima negativo. L’azienda dovrà spendere risorse per sostituire il lavoratore in malattia, vedrà aumentare il costo del prodotto a scapito della qualità con insoddisfazione del cliente. Per altro il lavoratore, per la sua condizione, avrà grosse difficoltà a trovare una nuova occupazione, perciò l’azienda dovrà affrontare spese legali, risarcimenti e conseguente perdita d’immagine. Tra l’altro, è provato che un lavoratore, vittima di mobbing, ha un rendimento inferiore del 60 per cento ed un costo per l’azienda del 180 per cento. I danni per lo Stato Anche l’intera comunità nazionale è danneggiata, sia per i disservizi che il mobbing produce, sia perché il Sistema Sanitario Nazionale sostiene costi per terapie, ricoveri, medicine. Aumentano le spese per gli oneri sociali quali sussidi, pensioni anticipate, mobilità, invalidità, ammortizzatori sociali, ecc.

    Lo Straining, si differenzia dal Mobbing, per il modo in cui è perpetrata l’azione vessatoria. Abbiamo ampiamente visto che, per parlare di Mobbing, è necessario che l’azione di molestia sia caratterizzata da una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, che venga riscontrato un danno alla salute e, infine, che questo danno possa essere messo in relazione all’azione persecutoria svolta sul posto di lavoro. Nello Straining, invece, viene meno il carattere della continuità delle azioni vessatorie. Pensiamo, per esempio, al demansionamento, alla dequalificazione, all’isolamento o alla privazione degli strumenti di lavoro: si tratta, certamente, di situazioni stressanti che possono anche causare gravi disturbi psicosomatici, ma non di azioni ripetute nel tempo. Quindi, la differenza fondamentale tra lo Straining e il Mobbing consiste nel fatto, che nel primo caso è presente un’ azione unica ed isolata, mentre nel secondo è fondamentale la continuità delle azioni vessatorie. Per parlare di Straining, quindi, è sufficiente anche una sola azione, purché i suoi effetti siano duraturi nel tempo, come nei casi di demansionamento o di trasferimento. Burnout La sindrome da burnout (o più semplicemente burnout) è l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto, qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. Maslach e Leiter (2000) hanno perfezionato le componenti della sindrome attraverso tre dimensioni: deterioramento dell’impegno nei confronti del lavoro, deterioramento delle emozioni originariamente associati al lavoro ed un problema di adattamento tra persona ed il lavoro, a causa delle eccessive richieste di quest’ultimo. In tal senso il burnout diventa una sindrome da stress non più esclusiva delle professioni d’aiuto ma probabile in qualsiasi organizzazione di lavoro.

La persona affetta da patologie importanti può chiedere il riconoscimento dell’invalidità civile. Una commissione medica della ASL, dopo la visita della persona e la visione della documentazione medica, redige un verbale su cui è indicata la percentuale dell’invalidità. 

  • Chi è considerato invalido civile

     

    • il cittadino di età compresa tra i 18 e i 65 anni che ha menomazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo (compresi gli irregolari psichici e le insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali) che ha una riduzione della capacità di lavoro non inferiore a 1/3;
    • il minore di anni 18 con difficoltà persistenti a svolgere compiti e funzioni proprie dell’età
    • l cittadino con più di 65 anni che ha difficoltà a svolgere i compiti e le funzioni proprie della sua età. Non sono considerati invalidi civili gli invalidi di guerra, del lavoro o per servizio, i ciechi civili e i sordomuti che sono tutelati da norme specifiche, più avanti illustrate. A che cosa serve A richiedere alcuni ausili Con il 67% ed oltre, la persona ha diritto alla tessera Metrebus a costo agevolato, all’esenzione sulle analisi, lastre, ecc. Con il 75% ed oltre, la persona ha diritto alla riduzione della tassa comunale per la nettezza urbana, all’esenzione dall’ICI. Con il 100% dell’invalidità la persona ha diritto all’esenzione totale del Ticket, alla riduzione del prezzo dei treni (carta blu), all’esenzione dal bollo automobilistico, all’acquisto di autovettura con IVA agevolata al 4%, al contributo per l’abbattimento delle barriere architettoniche, alla tessera Metrebus a costo agevolato con accompagnatore gratis, ai buoni taxi.

    Con il 100% dell’invalidità e l’incapacità a compiere gli atti quotidiani della vita o a deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore (legge 18/80) si ha diritto all’indennità di accompagnamento. In questo caso sul verbale sono barrati i codici 05 e 06. Diverso grado d’invalidità La legge ha stabilito, in base ad apposite tabelle, il diverso grado di invalidità in corrispondenza del quale si ha diritto a diversi benefici:

     

    a) il 33,33% (un terzo) d’invalidità e´ la soglia minima per essere considerato invalido e da` diritto a prestazioni protesiche e ortopediche;

     

    b) con il 46% d’invalidità si ha diritto all’iscrizione nelle liste speciali per l’assunzione obbligatoria al lavoro.

     

    Per avere diritto alle prestazioni economiche che tratteremo più avanti, la legge chiede un grado maggiore di invalidità.

     

    Se è maggiorenne

     

    Con il 74% è riconosciuta la qualifica di invalido parziale e si ha diritto all’assegno mensile. Con il 100% è riconosciuta la qualifica di invalido totale e si ha diritto alla pensione di inabilità; se l’interessato è anche non autosufficiente non autonomamente deambulante ha diritto all’indennità di accompagnamento.

    Se è minorenne

     

    Se l’invalido minorenne non ha autonomia nella deambulazione o ha la necessità di assistenza continua in quanto non è autosufficiente, ha diritto all’indennità di accompagnamento.

     

    Hanno diritto all’indennità mensile di frequenza:

     

    a) il minorenne invalido che ha difficoltà persistente a svolgere i compiti e le funzioni della propria età

     

    b) il minore ipoacusico che ha una perdita uditiva superiore ai 60 decibel nell’orecchio migliore nelle frequenze di 500, 1000, 2000 hertz, e che, per la sua minorazione deve far ricorso continuo o anche periodico a trattamenti riabilitativi o terapeutici. Collocamento L’invalido civile ha la facoltà di iscriversi nelle liste di collocamento obbligatorio al lavoro.

     

    Come si richiede La domanda per il riconoscimento dell’invalidità civile deve essere presentata compilando un apposito modulo con allegati la fotocopia di un documento valido di riconoscimento, il certificato del medico curante attestante la patologia e la documentazione clinica in fotocopia (cartelle cliniche, certificati di medici specialisti, ecc..). Il medico curante deve specificare sul certificato se la visita della commissione deve essere fatta a domicilio. Nel caso in cui s’intende chiedere l’indennità di accompagnamento il medico deve specificare che la persona non è in grado di compiere gli atti quotidiani della vita o di deambulare senza aiuto. Alla visita della commissione è possibile farsi assistere dal proprio medico di fiducia. Nel caso in cui la commissione medica riscontra che l’invalidità è suscettibile di modificazioni nel tempo, fissa un termine, alla cui scadenza, la persona sarà riconvocata a visita e sottoposta a nuovi accertamenti sanitari.

     

    L’aggravamento

     

    Nel caso ci sia un peggioramento delle condizioni di salute, qualora sia stata già riconosciuta l’invalidità dalla Commissione della ASL, può essere presentata domanda di aggravamento. La domanda deve essere presentata compilando l’apposito modulo con allegati: la fotocopia del precedente verbale d’invalidità e del documento di riconoscimento, il certificato del medico curante e la documentazione medica che attesta l’aggravamento della patologia per la quale la persona è già stata riconosciuta invalida o l’eventuale insorgenza di altre patologie.

     

    Dove si richiede

     

    La domanda di riconoscimento dell’invalidità civile e dell’aggravamento si devono presentare alla Commissione medica, istituita presso l’Azienda Sanitaria di residenza. Esistono due diversi modelli per la presentazione della domanda, uno per la persona maggiorenne e l’altro per la persona minorenne interdetta. Alla domanda devono essere allegati il certificato medico attestante la natura dell’infermità invalidante ed ogni altra documentazione integrativa.

     

    Indennità di accompagnamento

     

    È un’indennità economica che viene data all’invalido perché la utilizzi come ritiene più opportuno per la propria assistenza. Si ha diritto all’indennità di accompagnamento se la persona viene riconosciuta invalida al 100% ed incapace di compiere gli atti quotidiani della vita o di deambulare senza aiuto.

     

    In questo caso quando si riceve il verbale di invalidità, una copia di questo con allegato un modulo compilato, devono essere consegnati all’Ufficio INPS. La liquidazione dell’indennità di accompagnamento spetta all’Ufficio INPS della zona di residenza ed il pagamento, decorre dalla data della visita, può avvenire sia tramite la riscossione presso un Ufficio postale sia attraverso l’accreditamento su un c/c bancario o postale. La modalità scelta per la riscossione dell’indennità deve essere specificata nel modulo della domanda di riconoscimento dell’invalidità civile.

In ambito civile la Consulenza può essere richiesta dal Giudice (CTU) o dalle parti (CTP), nei seguenti casi:

  • Nel contrasto fra i genitori separati, per decidere l’affidamento dei o del minore
  • Nell’affidamento extrafamiliare di minori provenienti da famiglie inadeguate
    • Per accertare l’idoneità, ovvero la presenza dei requisiti psicologici nei coniugi che richiedono in adozione il minore
    • Per valutare la capacità di intendere e di volere di persone anziane o malate per l’amministrazione dei propri beni, per contrarre matrimonio,
    • Per fare testamento e donazioni, per stipulare contratti di lavoro
    • Per valutare l’idoneità psicosessuale per ottenere la rettificazione di attribuzione di sesso
    • Per valutare la presenza di un danno biologico psichico in caso di: infortunistica stradale, infortunistica professionale, mobbing, etc.

La malasanità è un fenomeno, purtroppo, molto sviluppato nella sanità italiana ma il nostro Stato non è il solo a patire questa piaga dolorosa. Infatti anche nel resto d’Europa, dove la malasanità è comunemente definita malpractice, i casi dovuti a errori spesso causati da distrazione o da poca competenza del corpo medico e sanitario, si stanno verificando con estrema regolarità. Pertanto l’associazione Osservatorio Sanità, il cui fine è quello di tutelare i diritti del malato vittime del sistema sanitario italiano, si confronta anche con le altre realtà sanitarie europee per trovare la giusta soluzione ad ogni caso. Sul nostro sito è presente la sezione “Finestra sull’Europa”, con aggiornamenti costanti, in cui è possibile confrontare i servizi sanitari europei con quelli italiani. 

  • Pertanto, se si è malauguratamente vittima di un danno biologico causato da errore medico, è di notevole importanza affidarsi a medici legali esperti che sappiano valutare con la dovuta attenzione l’entità del danno subìto e gli eventuali spettanti risarcimenti.

La consulenza di parte implica:
– la valutazione delle istanze avanzate nel ricorso dal punto di vista psicologico nell’interesse del minore ed una valutazione della situazione psicologica e giuridica insieme alla parte e all’avvocato della stessa riguardo all’oggetto della causa;
– la presenza durante gli incontri disposti dal CTU nominato dal giudice: sia a quelli con la presenza di tutte le parti, sia agli altri che si svolgono individualmente;
– il sostegno psicologico durante il periodo di svolgimento degli incontri suddetti. 

  • Al termine della CTU, quando il perito nominato dal giudice consegna l’elaborato con le sue conclusioni, il consulente nominato dalla parte di norma scrive le sue “deduzioni”, mettendo in evidenza gli errori ed indicando i limiti della consulenza tecnica d’ufficio, a tutto ciò il CTU a sua volta risponderà nelle “controdeduzioni”.

    Giova rilevare che il consulente di parte che sia anche CTU ha una visione del contesto più ampia, perchè trovandosi anche “dall’altra parte”, è maggiormente in grado di giudicare quali siano gli aspetti da tenere più in considerazione al fine di un verosimile esito positivo delle istanze delle parti assistite.

E’ un termine inglese che indica una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo che affligge un’altra persona, perseguitandola e generandole stati di ansia e paura, che possono arrivare a comprometterne il normale svolgimento della quotidianità.

Questo tipo di condotta è penalmente rilevante in molti ordinamenti.

In quello italiano la fattispecie è rubricata come atti persecutori (articolo 612 bis del Codice penale), riprendendo una delle diverse locuzioni con le quali è tradotto il termine stalking.

Il fenomeno è anche chiamato sindrome del molestatore assillante.